giovedì 7 luglio 2011

Gianni Toti e le diSper(iment)azioni Rai - intervista di Anna Barenghi

Conversazione telefonica, 12/04/06; incontro, 13/04/06, Roma.

Come si è svolta la Sua esperienza di collaborazione con la Rai? 
Non ho mai collaborato con la Rai. Nessuna persona sensata ha mai lavorato con la Rai… La Rai non è una entità vera: non esiste la Rai, in un certo senso, se posso dirlo. Io sento la televisione, sento che parlano parlano parlano, ma non si capisce mai se parlano veramente, se pensano veramente, se c’è qualcuno che pensa, nella Rai.

Nemmeno ai tempi del Settore Ricerca e Sperimentazione Programmi (1976-1987)? 
I tempi della Ricerca e Sperimentazione della Rai sono finiti qualche decennio fa. Io, veramente, trovo un po’ difficile persino tentare di ritrovare dei ricordi di un periodo che in realtà è fondato su una vera e propria inesistenza reale… Stiamo vivendo in un periodo così oscuro e indefinito, che io non riesco quasi più a pensare a qualcosa che faccia parte, appunto, di una sperimentazione, esperienza, di una empirìa. Quando tu mi dici che c’è stato un tempo di sperimentazione… sì, c’è stato; ma veramente io non riesco neanche più a pensarlo.

Però Lei riuscì a sperimentare l’uso di alcune macchine, che erano praticamente inutilizzate, o utilizzate in maniera ordinaria dai tecnici stessi della Rai, e a realizzare opere come Per una videopoesia (1980), i Videopoemetti (1981), la “Trilogia Majakovskijana” (1983). 
Sì, certo, è così… ma è una cosa quasi impalpabile, questa esperienza. Sì, qualcosa è stato fatto, ma io non riesco più a pensarlo molto, sinceramente.
Un mio amico carissimo, Italo Moscati, era responsabile della realizzazione di film… Ma poi è finito tutto, dopo non c’è stato più niente di tutto ciò. Non esiste, in Rai, la “ricerca e sperimentazione programmi”. Ormai fa parte della storia. O meglio, la Rai non ha storia…
Quando si parla di “ricerca e sperimentazione programmi”, si dice qualcosa che non esiste. La Rai, in sé, non esiste; esiste la televisione, che è un’altra cosa. La Rai dovrebbe essere Radiotelevisione Italiana…; invece non hanno un minimo di intelligenza, non hanno capacità di pensare. Secondo me la Rai in realtà non è mai esistita.

Nel 1977, con Annita Triantafyllidou, Lei realizzò una ricerca intitolata Videolettura. 
Annita Triantafyllidou era una donna simpaticissima, e anche capace. Era cipriota, l’ho conosciuta benissimo; e poi di lei non ho più saputo niente, è proprio sparita.
Praticamente fu lei la responsabile del mio avvicinamento al video. Era una ragazza molto giovane, avrà avuto venticinque anni; e aveva interesse un po’ per tutto, e per nulla nello stesso tempo. Lei mi venne a trovare una volta e mi disse: “Io di video non ci capisco niente e non ci voglio capire niente, però mi trovo ad andare sempre lì a Via Teulada, alla Rai, perché fa parte di quello di cui mi sto occupando – anche se in realtà non me ne sto occupando, perché io voglio tornare a Cipro e smettere con questa cosa… – Senti, Gianni, forse tu dovresti occuparti un po’ di questo video maledetto di cui io non voglio occuparmi assolutamente! Ci sono dei giovani amici che io ho conosciuto lì: potresti andare a conoscerli, e vedere di fare qualcosa per questo video…”.
E così, io che non mi ero ancora avvicinato al video e non avevo nessuna voglia di occuparmene, andai lì, per curiosità, conobbi cinque-sei ragazzi che erano simpatici. Erano tecnici, ma non c’era una capacità di pensare o di elaborare una attenzione a fare i video… Loro stavano lì, a Via Teulada, ma senza fare niente di diverso, niente di speciale. Mi misi, così per curiosità, a fare alcune cose…

Poi nacque Per una videopoesia… 
Sì, questa fu la prima cosa che ho fatto.

Quindi questa è la prima cosa in assoluto che fece con il video?
Sì, con quei ragazzi che non sapevano che cosa fare… e allora dissi loro: “Facciamo qualche cosa, e cominciamo a fare Per una videopoesia”: questo era il titolo che mi ero inventato, e così è nata Per una videopoesia.

I videopoemetti e le videopoesie erano stati pensati come intervalli televisivi? 
Be’, l’idea era questa… Io ne avevo parlato con la Rai, ma loro erano incapaci di pensarlo, di capirlo. Dissi: “Siccome sono brevi poemetti di video, sono piccoli video, sarebbe interessante, secondo me, che il pubblico – che vede sempre la televisione in modo non elaborato, non serio – prendesse l’abitudine di vedere, ogni tanto, un video piccolo, breve, di pochi minuti, di 2 o 3 minuti”: un video, che non è la televisione…
Questo era il mio progetto, ma non lo presero neanche in considerazione; se ne discusse molto, ma c’era proprio incapacità di pensarlo, in questi personaggi che lavorano alla Rai: non sono capaci di pensare nulla, non hanno né un progetto, né un’idea… Infatti rispondevano: “Come si fa a fare una televisione così? Non è possibile”. Invece è possibilissimo…

La “Trilogia Majakoskvijana” si compone di opere video di maggior durata, anche di un’ora – un’ora e mezzo. Quindi queste non erano pensate come intervalli televisivi? 
No, le pensavo come creazioni video.

E, anche in questo caso, pensava a una possibile messa in onda? 
Sì, io ci pensavo, ma loro invece…
La Rai si rifiutò di mandare in onda le mie opere, se non alcuni frammenti, citazioni senza significato, senza importanza.

Non c’era con i dirigenti Rai un confronto, almeno a livello di progetti? 
No, assolutamente.

Lei poi iniziò con la Rai il progetto di SqueeZangeZaùm. Quando nel 1987 la struttura di sperimentazione fu chiusa, Lei minacciò di lanciare lo scrittoio dalla finestra…
Be’, io avevo lavorato per fare SqueeZangeZaùm, e quindi andai alla Rai e dissi: “Allora, adesso realizziamo questa cosa”. E invece questi banditi mi dissero: “Ma no; adesso no, aspetta. Noi abbiamo intenzione che tu, così bravo, invece di occuparti di questa cosa, ti occupi di qualcos’altro…”. Mi avevano proposto delle cose assurde, volevano che facessi qualcosa come piccoli film o cartoni animati… E io mi arrabbiai moltissimo, dissi: “Voi siete matti! Voi non volete fare una cosa per la quale da tempo io sto lavorando, avendone parlato sempre con voi”. Persi la testa, al punto che volevo veramente schiaffeggiarli tutti. E poi loro mi acchiapparono, mi tenevano proprio, perché io ero davvero furibondo. Dissi: “Se voi non smettete di tenermi così, io farò qualcosa che voi rimpiangerete; perché prenderò questa bella scrivania e la scaraventerò dalla finestra, sul cavallo. E così, non soltanto io mi toglierò lo sfizio di colpirvi: il cavallo è famoso, e, se la scrivania cadrà sul cavallo, in tutta Italia si verrà a sapere cos’è successo alla Rai; tutti sapranno che alla Rai si è arrivati al punto di non saper più intrattenere dei rapporti con la gente, con gli artisti… E sarà una brutta cosa”. E io ero arrivato al punto di volerlo fare davvero: ero serio, non è che stessi scherzando; perché allora io ero furibondo per tante cose che c’erano nel mondo – e ci sono anche adesso: sono un po’ furibondo sempre…
Avevo proprio preso la scrivania, la stavo per lanciare. Chiamarono della gente per tenermi…
Poi io me ne andai, e lasciai perdere la Rai, non volli avere più rapporti con loro.

Ho notato, in queste opere, un carattere dichiarato di sperimentazione: la volontà di sottolineare che si sta facendo qualcosa di sperimentale, più che realizzare un’opera compiuta; fin dal titolo: Per una videopoesia. Tutto ciò che si pensa è sperimentale. Tutto è empirico. Non c’è la espirìa; noi diciamo “esperienza”, ma invece bisognerebbe dire “empirienza”, dal verbo che significa “provare”. Io ho sempre pensato che tutto ciò che è pensiero dell’uomo, reale, pratico, pragmatico, è empirico.

In VALERIAscopia, la danza della ballerina è una danza provata, quasi svogliata: è come se accennasse i movimenti, invece di eseguire una danza vera e propria. 
Sì, in VALERIAscopia si provava, proprio perché non fosse una cosa di teatro o di televisione… Non era una danza, ma era un movimento così, più che danzato, provato; come era secondo un’idea di prova. Non era un ballo, era una prova di spazio; Majakovskij era questo… C’era un rapporto con Majakovskij: VALERIAscopia (da scopìa, visione; la televisione dovrebbe essere chiamata telescopìa) era la ballerina majakovskijana, Majakovskij e lei erano la stessa cosa.


La Sua voce, nei video, spesso parla delle tecniche utilizzate, come la chiave di colore, il rallentamento, l’oscilloscopio. Nel rapporto con le macchine, c’era anche l’idea di esplorarne gli utilizzi alternativi, sperimentando gli errori, o i disturbi? 
Nelle mie opere, tutto è una sperimentazione. Non è che siano state volute, che ci fosse una trama… Non c’è una trama. Per esempio, nella Fine della morte del trionfo, a un certo punto c’è il diavolo; non è che, prima di farlo, io avessi pensato: “adesso faccio il diavolo”, è venuto così, provando e sperimentando… Credo che tutto sia così, tutto è un esperimento.